Il ruolo della mamma e il legame mamma-bimbo/a

Vorrei dedicare questo approfondimento a un altro argomento che mi sta molto a cuore: il ruolo positivo della madre e il legame di attaccamento.

Il ruolo della madre è fondamentale per molteplici processi che riguardano il bambino e il suo sviluppo e la corposa letteratura a riguardo ce ne da  conferma, tantoché nel corso degli studi filogenetici sulla psicologia, c’è stato anche chi, come James Hillmann, ha parlato di “matriarcato collettivo[1]” nella psicologia, del primato cioè del femminile “la famiglia, l’infanzia,”[2] nell’indagine psicologica, o di “complesso del padre assente[3]  talmente la “componente maschile” è irrisoria e  l’altra parte  altamente presente.

Non è possibile per tal ragione, riportare tutte le teorie e considerazioni in merito, mi limiterò per tanto a riferire sinotticamente di alcune delle teorie sul ruolo della madre più note e valide, a mio modestissimo parere.[4]

La psicoanalisi e personaggi del calibro di D.Winnicott notificano che la madre si rivela fondamentale nel processo di formazione del sé ossia dell’immagine e consapevolezza che il soggetto ha di se stesso ed il sentimento ad esso associato,[5] o come sostiene lo psicanalista Bowlby, l’attaccamento alla madre, a cui il bambino secondo lo studioso è geneticamente predisposto, è essenziale nell’andamento del suo sviluppo emotivo e di personalità, del suo senso di autonomia, dei suoi rapporti interpersonali e ad essi associato del suo “bisogno di affiliazione” futuro e soprattutto dei suoi tratti psicologici e caratteriali la cui positività o negatività dipende proprio da che tipo di attaccamento si è creato tra i due (che avrò modo di approfondire successivamente); o ancora come testimoniano le ricerche degli psicolinguisti Cherry e Lewis e le tesi di Bruner, la madre si rivelerebbe importantissima nell’acquisizione del linguaggio e delle capacità comunicativo-simboliche dei bambini.

Molte ricerche dei primi due hanno infatti testimoniato che la tipologia ad esempio di motherese, il tipico linguaggio che la madre adotta nei confronti dei figli molto piccoli, determinerebbe il livello di abilità linguistica nel figlio durante la scuola elementare e, se il motherese è stato adeguatamente articolato, ricco di stimoli e d’informazioni, darebbe vita ad un’abilità linguistica altrettanto più elevata; ciò sarebbe inoltre strettamente associato al livello socio-culturale delle madri, direttamente proporzionale anch’esso alle elevate abilità: più alto è il livello socioculturale d’appartenenza delle madri, più elevato sarebbe il livello di motherese, e quindi più alte le abilità linguistiche assunte dai bambini; nonchè inciderebbe  il sesso del destinatario del motherese: se femmina il motherese sarebbe più complesso e ricco se maschio meno.

Bruner Jerome Seymour, celeberrimo psicologo statunitense,  sottolineando il valore altamente importante del contesto ludico in  termini di apprendimento, ci ricorda che l’adulto in generale, ma la madre in particolare in quanto caregiver per eccellenza, sia il primo allenatore ludico, e che attraverso determinate condotte ludiche per l’appunto è possibile stimolare l’acquisizione del linguaggio, come ad esempio il gioco del cucù, o il gioco di dare e prendere, che fungerebbero quindi da protoconversazioni tra i due.

Le cure materne rappresentano infatti gli elementi che fondamentalmente costituiscono l’ambiente dell’infante: “Il potenziale ereditario di un infante può diventare un infante, solo se connesso alle cure materne” [6]

Tali cure, che Winnicott riassume nel concetto di “holding” ossia il sostenere ( holding, letteralmente significa proprio “sostegno”), fisicamente e psicologicamente il lattante, tenendo conto del fatto che egli non sa che esiste qualcos’altro oltre a Sé, essendo ossia, doppiamente dipendente, giungono magicamente a soddisfare i bisogni del bambino, grazie ad un adattamento quasi totale della madre a quest’ultimo che l’autore definisce “preoccupazione materna primaria”, una “malattia normale che permetterebbe alle madri di adattarsi con delicatezza e sensibilità ai primi bisogni del bambino[7].

La madre è sperimentata inizialmente come un “ambiente”, un involucro che lo avvolge e soddisfa ogni sua esigenza in maniera immediata, contribuendo così a rafforzare nel bambino l’illusione che sia stato lui a creare ciò di cui ha bisogno, e quindi il senso di fiducia.

Ad un certo punto dello sviluppo però il bambino deve iniziare ad appropriarsi della sua indipendenza, separandosi gradatamente dalla madre, che favorirà tale processo mancando, piano piano, all’adattamento totale ai bisogni dell’infante attraverso lo svezzamento, facendogli constatare, con una relativa delusione, che l’oggetto esiste indipendentemente dal suo controllo e che la semplice insorgenza del desiderio, non è condizione sufficiente per creare immediatamente ciò che desidera.

Il bambino non sarà però subito autonomo, bensì si troverà ad affrontare quello che Winnicott definisce “stadio della dipendenza relativa”, o del fenomeno transizionale, che si rivela come uno stadio di passaggio, di collaudo della nuova situazione, in cui il bambino si adatta gradualmente a de-adattarsi, costellato dalle prime attività ludiche, perchè il “gioco” lo spazio cioè dell’illusione, da in-ludo per l’appunto è fondamentale per alimentare e sostenere tale importantissimo passaggio, (oltrechè per consentire al soggetto in futuro di essere libero e creativo)  in quanto la separazione con la madre inizialmente è come se venisse “procrastinata” dal bambino, che, per separarsi gradatamente, sposta le qualità positive della madre fino ad allora considerata interna al proprio mondo, verso qualcosa di esterno e materialmente tangibile, ma di natura simbolica, il cosiddetto “oggetto transizionale“, (peluche, giocattoli, filastrocche che precedono il sonno)  proprio perchè, come suggerisce il termine medesimo e la sua natura simbolica, getta un ponte, “dal greco sun-ballo”, crea un collegamento, tra il mondo interno e il mondo esterno, il soggettivo e l’oggettivo, se stesso e l’altro, caricandolo di un importante valore emotivo, di cui poi si libererà al momento opportuno.

In questa delicatissima fase della vita del bambino, è fondamentale che la madre non sia eccessivamente buona con lui, ma ella  dovrà piuttosto avere delle carenze, in quanto saranno queste che stimoleranno il bambino a uscir fuori dal limite della dipendenza totale e tentare la via della comunicazione, dello scambio sociale [8], anche se, perché si realizzi la separazione, è necessario che la fase di iniziale sperimentazione dell’illusione di onnipotenza e di fiducia, sia stata adeguatamente offerta dalla madre.

Mamme, non abbiate paura di chiedere aiuto se sentite di avere dei dubbi nel vostro agire educativo. Avete visto che straordinario potere avete? Nessuno vi dirà come essere delle brave madri, vi si può al massimo indicare delle strade da seguire al fine di adoperare con coscienza gli strumenti dell’agire educativo, di cui siete dotate, ma non sempre ne siete consapevoli. Nessuno può insegnare ad essere genitore, genitore si diventa. Ma ad essere un/a bravo/a educatore/ice, sì!

Ed è qui che entra in gioco la mia figura.

Non esitare quindi a contattarmi.

 

Dott.ssa Fabiana Muni

 

Rimando a seguire un seminario gratuito interessante sul distacco dalla mamma e il legame di attaccamento per completare la panoramica sull’argomento.

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[1] De Caroli M.E., Una briglia all’emozione. Creatività e psicoanalisi. Franco Angeli, 2002. Pag.74

[2] Ibidem

[3] Ibidem

[4] Chiarisco che suddette teorie sono riportate dalla sottoscritta secondo una rielaborazione personale dei contenuti studiati nelle varie discipline psicologiche

[5] definizione fornita a voler essere precisi, secondo una comune e generale accezione, in quanto tale termine ha all’interno della letteratura tantissimi altri significati e diciture

[6] Frase di D.Winnicott, citata nel testo “Mondo interno e mondo esterno, Intersezioni e confini in psicologia dinamica” Carocci Editore, 2004, pag 245.

[7] Winnicott D.,1958a -1975 p.359, da Una briglia all’emozione pag165

[8] Pinto,1988- psicologia dello sviluppo cap 9 pag.255,nota

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